La trombosi venosa profonda si manifesta con un trombo all’interno di una vena, che tendenzialmente colpisce il circolo venoso profondo degli arti inferiori, mentre l’embolia polmonare è l’ostruzione parziale o totale di uno o più rami presenti nell’arteria polmonare, causata da materiale proveniente dalla circolazione sanguigna sistemica.
La trombosi venosa profonda viene indicata con l’acronimo TVP. È definita febotrombosi in termini scientifici. Questa parola indica appunto la creazione del trombo in una vena, in particolare delle gambe, il principale luogo di formazione.
Negli ultimi decenni, a causa della sedentarietà, e dunque della mancanza di movimento degli arti inferiori, l’incidenza della TVP è aumentata considerevolmente.
Vi sono anche trombi che si formano in vene localizzate nell’addome, ma vengono differenziate dalla TVP.
I sintomi più evidenti della TVP sono il riscaldamento della temperatura degli arti inferiori. Anche il loro gonfiore e un certo arrossamento, con possibile comparsa di dolore. Come detto, la creazione del trombo, una volta libero di circolare nel sangue, può portare all’embolia polmonare. A volte fatale.
Per questo i due fenomeni sono oggi associati nella tromboembolia venosa. Questa viene descritta dalla medicina come un solo sviluppo patologico.
Ad unire i fili conduttori tra le due patologie fu il medico tedesco Virchow, alla metà dell’Ottocento. Egli introdusse la cosiddetta “triade di Virchow”, che sintetizza le tre manifestazioni di stasi venosa: ipercoagulabilità e cambiamenti delle pareti venose. Si ha quindi una ipo-pressione sanguigna con una maggiore coagulazione e la modifica della struttura paretale arteriosa.
La TVP si sviluppa a partire dalle valvole venose in un ambiente ipo-ossigenato. Ma è favorita anche dalla presenza di alcune malattie e da una determinata storia clinica. Fenomeni cancerosi aumentano la possibilità di TVP. Così come la chirurgia e l’età. A favorire la TVP ci sono anche alcuni farmaci, come la pillola anticoncezionale. Oppure stati fisiologici come lo stato interessante.
L’età, che provoca un rilassamento ed un ispessimento generalizzato dei tessuti. È un fattore che aumenta dell’1 per mille la possibilità di avere una trombosi.
La diagnosi
Diagnosticare la possibilità di avere una trombosi è spesso fondamentale per evitare complicazioni. A volte fatali. Alcune analisi possono evidenziare sospette trombosi. Si procede quindi con una terapia di prevenzione. Per cercare di prevenire la trombosi si usa il punteggio di Wells. Ovvero una serie di domande sulla propria storia clinica. Dalle risposte avute si può determinare una certa predisposizione alla TVP. Naturalmente vengono indicati e chiesti se si ha avuto una delle condizioni cliniche precedentemente menzionate. Per diagnosticare la possibile TVP si ricorre anche al dosaggio del D-Dimero. Questo a seconda della quantità presente nel sangue, può indicare una percentuale di probabilità per la patologia.
Ma è l’ecografia quella che sicuramente fornisce le indicazioni più precise. Ad esempio di fronte ai sintomi sopra descritti, come le gambe gonfie. In quel caso l’analisi va direttamente a scannerizzare le gambe, per riscontrare se effettivamente vi siano dei trombi e se siano in fase di distacco.
Trattamento
Una volta che il test diagnostico ha accertato la presenza di trombi, va immediatamente iniziata una terapia farmaceutica. In modo che permetta di scongiurare possibili danni maggiori. I farmaci che vengono somministrati sono principalmente gli anticoagulanti. Questi evitano l’aggregazione dei trombi e quindi la loro pericolosità nelle vene più piccole. Questi farmaci sono composti da antagonisti della vitamina K e da eparina.
Poi si possono utilizzare dei dispositivi sanitari, come calze appositamente concepite per un effetto di compressione controllata sulle gambe. Ma viene in particolare suggerita l’attività motoria, anche se fatta solo di lunghe camminate veloci, che possono essere fondamentali per mantenere una circolazione sanguigna fluida. Anche l’aspirina è tra i farmaci utilizzati. Per i casi di una certa gravità invece, possono essere impiantati anche dei filtri detti cavali. Questo nei pazienti che manifestano problemi nell’assunzione degli anticoagulanti. I filtri cavali si utilizzano in alternativa agli anticoagulanti, e non in associazione con essi. Inoltre, questi filtri, vengono scelti solo nei casi in cui la TVP sia talmente grave da essere considerata a lungo termine.
Un’ultima tecnica di risoluzione per la TVP è la trombolisi, anch’essa utilizzata là dove gli anticoagulanti sono inefficaci o inadatti. Si tratta di una tecnica farmacologica che va a disgregare i trombi e le aggregazioni di sangue con dei farmaci ad hoc, della categoria dei trobolitici.
Trattamento con anticoagulanti
Il trattamento standard per la cura della trombosi venosa, è la somministrazione di farmaci anticoagulanti. Questi medicinali impediscono ulteriormente la coagulazione, ma non vanno ad agire sui coaguli esistenti. Tutto questo è stato dimostrato da diversi studi clinici, che hanno evidenziato l’efficacia e la sicurezza rispetto ai FANS ed al Placebo. Valutare il rapporto tra i benefici ed i rischi è molto importante, in maniera tale da stabilire la giusta durata del trattamento, che generalmente è di tre mesi.
Una terapia di maggiore durata, è possibile in quei pazienti che hanno un rischio di sviluppare la malattia maggiore, provocato da un episodio che non ha determinato danni importanti. I pazienti che hanno terminato il trattamento a base di vitamina K, presentano un elevato rischio di recidiva.
In presenza di casi acuto di trombosi venosa degli arti inferiori, si raccomanda la somministrazione di un anticoagulante parenterale. Tali farmaci sono l’Eparina a basso peso molecolare, o l’Eparina non frazionata ed il Fondaparinux.
Questi medicinali devono essere somministrati per almeno 5 giorni insieme agli antagonisti della vitamina K. Gli antagonisti vengono prescritti nei malati con funzionalità renale compromessa e sono: EBPM, e Fondaparinux.
L’antagonista della vitamina K viene somministrato tendenzialmente per un minimo di tre mesi, in maniera tale da poter mantenere un rapporto internazionale normalizzato di 2.0- con 2.5 come target di riferimento. Nei pazienti con trombosi venosa profonda, e che hanno subito un intervento chirurgico, l’ACCP raccomanda il trattamento per tre mesi. Una terapia farmacologica di tre mesi, è raccomandata anche nei pazienti con trombosi venosa dovuta al fattore di rischio transitorio.
Quali sono le conseguenze dell’embolia polmonare?
Come abbiamo descritto precedentemente, l’embolia polmonare si manifesta quando il sangue ostruisce i vasi sanguigni polmonari e di conseguenza compromette la respirazione.
Tale compromissione viene causata da un embolo, ovvero un coagulo di sangue che può raggiungere le arterie polmonari e chiuderle. A scatenare l’embolia polmonare possono essere vari fattori, come ad esempio un intervento chirurgico, il sovrappeso, la sedentarietà, la flebite e l’età.
In presenza di embolia polmonare si manifesta una sintomatologia che non deve essere sottovalutata, perché con il passare del tempo, la condizione fisica del malato potrebbe degenerare, ovvero dolore al petto, tosse con emissioni di muco e sangue, e difficoltà respiratoria improvvisa. Le conseguenze dell’embolia polmonare sono fatali a 3 persone su 10.
Cos’è l’embolia polmonare massiva
Si definisce embolia polmonare massiva quando vi è il coinvolgimento di almeno due rami lombari o del 50% della circolazione nei polmoni. Gli emboli per il 95% dei casi partono da una trombosi venosa profonda degli arti inferiori, ed il restante dagli arti superiori, oppure sono caratterizzati da materiale non trombotico, ovvero grasso, liquidi e gas.
L’ostruzione del flusso sanguigno mediante i polmoni e la pressione arteriosa, sono visibili sul ventricolo destro del cuore, e sono le cause principali che determinano la sintomatologia dell’embolia polmonare massiva. Ad aumentare il rischio di sviluppare tale patologia è la presenza di un tumore e l’allattamento prolungato.
Quali sono i sintomi premonitori dell’embolia polmonare
Alcuni sintomi improvvisi ben precisi, sono dei veri e propri segnali premonitori di un’embolia polmonare e sono: mancanza di fiato, forte dolore al petto, tosse striata con sangue, aumento dei battiti cardiaci, specialmente se tale sintomatologia si presenta a seguito di un viaggio aereo lungo o dopo un intervento chirurgico.
I sintomi meno caratteristici ma di uguale importanza sono: affaticabilità, sudorazione improvvisa, agitazione e dolore e gonfiore al polpaccio.
Quando l’embolia polmonare conduce alla morte
L’embolia polmonare è una patologia che deve essere contraddistinta dall’ostruzione di un vaso sanguigno che trasporta il sangue con insufficienza di ossigeno dal cuore verso i polmoni. Il vaso che interessa l’occlusione può essere sia l’arteria polmonare o una sua ramificazione, mentre quando si parla di ostruzione vi è la presenza di un embolo.
A seguito di una ricerca svolta in America, ogni anno l’embolia polmonare colpisce 600.000 persone, provocando la morte tra i 50.000 ed i 200.000 pazienti, ed inoltre è emerso che negli ultimi 25 anni il tasso di mortalità a causa dell’embolia polmonare ha subito una riduzione pari al 6%. Nel nostro paese il tasso di mortalità da embolia polmonare ha una incidenza pari a 65.000 casi ogni anno.
Come si può guarire dall’embolia polmonare
Per guarire dall’embolia polmonare sono necessari due trattamenti tempestivi, il primo è il ricovero ospedaliero di emergenza, il secondo è la degenza.
Gli obiettivi primari sono la prevenzioni di ulteriori coaguli. Per mantenere i livelli di ossigeno nella norma, è possibile che al paziente venga effettuata l’ossigeno terapia.
Legame tra embolia polmonare e tumore
C’è un legame tra l’embolia polmonare e la presenza di un tumore, descritto già nel lontano 1865 da un medico francese, che a seguito delle sue ricerche, aveva scoperto come queste due patologie, apparentemente lontane tra loro, avessero in realtà molte cose in comune.
Tale legame possiamo considerarlo a doppio senso, perché da una parte abbiamo il paziente affetto da tumore che e a forte rischio di embolia polmonare che determina l’ostruzione di uno o più vasi sanguigni, dall’altra la crescita e lo sviluppo del tumore e delle metastasi, possono essere favorite dal processo della coagulazione e da parte di tutti i meccanismi che sviluppano l’embolia polmonare.
Embolia polmonare e periodo di convalescenza
Il periodo di convalescenza dopo l’embolia polmonare, prevede una degenza ospedaliera associata al rischio di mortalità post-dimissioni. La durata della degenza va in base alla risposta clinica del paziente, per questo può variare da soggetto a soggetto.
I fattori che determinano il periodo di convalescenza sono associati a fattori legati sia al luogo sia al paziente. Se un paziente effettua un periodo molto breve, questo è ad alto rischio di mortalità, rispetto ad un paziente che svolge una convalescenza tipica, per questo possiamo dedurre che nella maggior parte dei casi, sono i medici a selezionare in maniera non del tutto appropriata i pazienti che hanno manifestato embolia polmonare, e vengono dimessi precocemente quando in realtà sono a maggior rischio di complicazioni.
Grazie ai modelli prognostici ed allo sviluppo di criteri espliciti che servono per le dimissioni, è possibile identificare il paziente con embolia polmonare che può essere dimesso precocemente ed in sicurezza.
Tali metodi potrebbe essere utilizzati anche in presenza di altre patologie, specialmente quelle potenzialmente letali, dove occorrono dei criteri adeguati per stabilire il momento adatto per la dimissione, come ad esempio per la polmonite.
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Voci correlate
- Trombosi
- Flebotrombosi
- Trombofilia
- Embolia polmonare
- Apparato circolatorio
- Nuovi anticoagulanti orali (NAO)