Quella che viene chiamata ipo-agammaglobulinemia congenita si può considerare come una vera e propria carenza di anticorpi: si può considerare come il più importante e diffuso difetto che può colpire il sistema immunitario.
Nello specifico, questa condizione ha come principale conseguenza lo sviluppo di infezioni anche particolarmente gravi, che possono insorgere in modo particolare a livello dei polmoni.
Si può considerare un’immunodeficienza ereditaria che presenta come caratteristica principale la totale mancanza di linfociti B circolanti e, di conseguenza, l’assenza dei pazienti di riuscire a generare degli anticorpi.
La forma che insorge con la maggiore frequenza (circa nel 85-90% delle situazioni) va ad aggredire persone che hanno sesso maschile e corrisponde alla patologia di Bruton, che viene anche chiamata agammaglobulinemia X-recessiva.
Quali sono le cause della ipo-agammaglobulinemia congenita
Nel momento in cui tale patologia venne descritta per la prima volta da Bruton, non si sapeva ancora praticamente nulla circa i vari sistemi che permettono di controllare il funzionamento del sistema immunitario.
Ai tempi, infatti, era conosciuto unicamente il fatto che un antigene, quando veniva somministrato nel paziente, aveva la capacità di provocare l’insorgere all’interno del siero di sostanze che vengono chiamate anticorpi.
Si tratta di anticorpi che vengono generati da parte di una tipologia di cellule specifica che si trova nel sangue, ovvero i linfociti B. E proprio in tutti i pazienti che non avevano tali cellule si riscontravano carenze di anticorpi e da qui deriva il termine di soggetti agammaglobulinemici.
Solamente nel 1993 si è riusciti a comprendere il motivo per cui vi era tale mancanza di linfociti B. Si tratta, in pratica, di alterazioni che vanno a colpire molecole coinvolte nel processo di maturazione dei linfociti B, che parte nel midollo osseo.
Anche solamente l’alterazione di una di tali molecole può ostruire lo sviluppo dei linfociti B. Proprio nel 1993 è stata individuata una molecola che successivamente si è notata alterata in tutti quei pazienti che soffrono di XLA: si tratta della BTK. Dei difetti che hanno colpito la proteina BTK hanno aggredito circa l’85-90% delle persone che sono affette da ipo-agammaglobulinemia congenita.
Quali sono i principali sintomi della ipo-agammaglobulinemia congenita
I pazienti che soffrono di ipo-agammaglobulinemia congenita rimangono sotto osservazione medica nel momento in cui hanno una certa predisposizione nei confronti delle infezioni di natura batterica, in modo particolare quelle che derivano da stafilococchi, pneumococchi e Haemophilus influenzae.
Si tratta di infezioni batteriche che possono svilupparsi già nel corso dei primi ventiquattro mesi di vita del bambino, ovvero nel momento in cui sono stati rimossi praticamente tutti gli anticorpi che sono stati ceduti dalla madre in modo passivo nel corso della gravidanza.
Tali infezioni batteriche piuttosto di frequente si caratterizzano per avere un decorso particolarmente grave, ma sono molto efficaci le cure a base di farmaci antibiotici, anche se capita spesso che possano insorgere nuovamente nel giro di pochi giorni oppure dopo qualche settimana da quando il trattamento è stato sospeso.
Quali terapie si possono seguire per la ipo-agammaglobulinemia congenita
La malattia ipo-agammaglobulinemia congenita si può curare di solito con un trattamento sostitutivo a base di immunoglobuline.
Si tratta di una cura che si basa su un principio di carattere generale, in base al quale quando una malattia viene provocata da una mancanza nella produzione di una sostanza che di solito viene prodotta naturalmente da parte del corpo, allora il trattamento più efficace potrebbe essere proprio quello di somministrare al paziente la sostanza di cui lamenta la mancanza. Si parla, in questi casi, di terapia sostitutiva.
Quindi, il corpo di tali pazienti non riesce a produrre in modo autonomo le immunoglobuline e, di conseguenza, devono essere somministrate dall’esterno: nella maggior parte dei casi si ricorre alla via endovenosa.
L’obiettivo di questo tipo di trattamento, di conseguenza, non è che quello di permettere al paziente di arrivare fino a dei livelli di immunoglobuline all’interno del sangue sufficienti per garantire una corretta protezione nei confronti delle possibili infezioni che possono attaccare l’organismo.
Di solito, si tenta di aumentare il livello delle IgG del sangue in modo tale che vada a superare la soglia di 500 mg per 100 ml. Per fare in modo di raggiungere tale obiettivo, spesso la terapia prevede la somministrazione di circa 400 mg di immunoglobuline per ciascun chilo del peso del paziente, che devono essere assunte mediante endovena ogni 21 giorni.
Chiaramente nel caso in cui tale dosaggio non fosse sufficiente per raggiungere il limite prefissato, allora dovrà essere aumentata la quantità di immunoglobuline da somministrare al paziente, fino ad arrivare a circa 600 mg, oppure si può anche optare per la somministrazione di una dosa da 400 mg ogni due settimane al posto che ogni 21 giorni.
Esistono dei casi in cui, come quando ci sono delle infezioni acute in atto, il consumo delle immunoglobuline all’interno del sangue è notevolmente più rapido e, di conseguenza, la distanza tra le varie somministrazioni può essere anche notevolmente ridotta, per poi riprendere il normale lasso di tempo dopo che è stata oltrepassata la fase acuta.
I grandi passi in avanti da compiere nella ricerca
Esiste un’iniziativa di sensibilizzazione globale, che prende il nome di Settimana Mondiale delle PI, che ha come obiettivo quello di incrementare il riconoscimento e la diagnosi di quelle che vengono chiamate immunodeficienze primarie, ovvero un insieme sempre più pericoloso di patologie.
Fino a qualche decennio fa le deficienze immunitarie primarie venivano considerate un gruppo di patologie rare che andavano a colpire una persona ogni 10 mila, ma al giorno d’oggi tali statistiche non sono chiaramente più validi e ragionevoli: infatti, sono patologie che insorgono molto più di frequente e possono svilupparsi praticamente a qualsiasi età, anche nelle persone adulte. In poche parole, praticamente ogni paziente che viene ricoverato in ospedale può essere soggetto al rischio di infezioni, così come tutte quelle persone che hanno un problema di infezioni meno gravi, ma che insorgono spesso, presentano in comune una risposta del sistema immunitario del tutto anomala.
I passi in avanti della ricerca negli ultimi anni sono stati fondamentali: pensate che praticamente con cadenza quasi mensile viene scoperto un nuovo difetto genetico che si può ricollegare ad un nuovo deficit immunitario, ma per capire l’organizzazione generale di tale gruppo di malattie ci vuole ancora tempo e tanti sforzi. Senza dubbio si punta il prima possibile a raggiungere la diagnosi precoce di gran parte dei sintomi che si riferiscono a delle immunodeficienze primarie.
Bibliografia
- Sergio Romagnani, Emmi Lorenzo, Almerigogna Fabio, Malattie del sistema immunitario seconda edizione, Milano, McGraw-Hill, 2000, ISBN 978-88-386-2366-0.
Voci correlate
- Sindrome di Chédiak-Higashi
- Atassia-teleangectasia
- Sindrome di DiGeorge
- Sindrome da deficit di adesione leucocitaria