In particolare, il termine è stato più associato a Patty Hearst, un’ereditiera rapita dai militanti rivoluzionari nel 1974. La donna sembrava aver sviluppato simpatia per i suoi rapitori, tanto da unirsi a loro in una rapina: alla fine è stata catturata, e ha ricevuto una condanna a morte.
Tuttavia, l’avvocato difensore di Hearst, Bailey, affermò che la diciannovenne era stata sottoposta a una sorta di “lavaggio del cervello”, e che soffriva della “Sindrome di Stoccolma” – un termine che era stato recentemente coniato per spiegare i sentimenti apparentemente irrazionali di alcuni prigionieri per i loro rapitori.
Più recentemente il termine è stato applicato nei resoconti dei media sul caso Natascha Kampusch. Kampusch – rapita a 10 anni da Wolfgang Priklopil e tenuta in uno scantinato per otto anni – pare aver pianto quando ha sentito della morte del suo rapitore e, successivamente, aver acceso una candela per commemorarlo.
Ad ogni modo, mentre l’associazione di questo termine è ampiamente nota, meno famosa è la vicenda che ha condotto alla coniazione di questa frase.
L’origine
Fuori dalla Svezia pochi conoscono i nomi dei banchieri Birgitta Lundblad, Elisabeth Oldgren, Kristin Ehnmark e Sven Safstrom.
I quattro, il 23 agosto 1973, furono presi in ostaggio nella Kreditbanken dal criminale Jan-Erik Olsson, che fu poi raggiunto in banca da un’ex detenuta. Sei giorni dopo, al termine dello stallo, divenne evidente che le vittime avevano formato una sorta di relazione positiva con i loro rapitori.
Per quanto concerne la sua attribuzione, pare che la frase sia stata coniata dal criminologo e psichiatra Nils Bejerot, secondo cui l’evoluzione del rapporto tra gli ostaggi e i rapitori si concretizzerebbe in alcuni step consequenziali.
Nel primo, gli ostaggi sperimentano paura, qualcosa di terrificante che fa loro immaginare che la morte arriverà da un momento all’altro. Successivamente sperimentano un tipo di infantilizzazione: come un bambino, non sono in grado di mangiare, parlare o andare in bagno senza permesso. Quindi, piccoli atti di gentilezza – come ricevere cibo – stimolano una primitiva gratitudine per il dono della vita, che con il tempo si trasforma in un sentimento positivo nei confronti del loro rapitore, tanto da negare che questa sia la persona che li ha messi in quella situazione e pensare che invece questa sia la persona che li lascerà vivere.
Tornando alla banca di piazza Norrmalmstorg di Stoccolma, sono gli stessi rapitori a spiegare cosa sia successo.
In un’intervista del 2009 con Radio Sweden, Kristin Ehnmark (uno dei rapiti) ha spiegato che “è un contesto in cui ti imbatti quando tutti i tuoi valori in qualche modo cambiano”. E ‘stato proprio Ehnmark che, secondo le ricostruzioni, avrebbe costruito la relazione più forte con Olsson.
In particolare, in una telefonata dal caveau della banca al Primo ministro del paese, Olof Palme, Ehnmark implorava alle autorità di lasciare la banca. Una delle richieste di Olsson era stata la consegna di un’auto di fuga con cui aveva progettato di scappare con gli ostaggi, ma le autorità avevano rifiutato.
Dicendo a Palme che era “molto deluso” da lui, Ehnmark disse al Premier di ritenere che stesse “giocando a dama con le nostre vite (…) Non sono disperato, non ci hanno fatto niente di male. Al contrario, sono stati molto gentili, ma lo sai, Olof, quello di cui ho paura è che la polizia attaccherà e ci farà morire”.
Il giornalista americano Daniel Lang ha intervistato tutti coloro che sono stati coinvolti nel dramma un anno dopo, per il New Yorker. Gli ostaggi hanno dichiarato di essere sempre stati trattati bene da Olsson, e all’epoca sembrava che credessero che dovevano la loro vita al criminale. Safstrom avrebbe altresì dichiarato di provare gratitudine anche quando Olsson gli aveva detto che aveva intenzione di sparargli per dimostrare alla polizia che faceva sul serio, ma aggiungendo anche che avrebbe fatto di tutto per non ucciderlo, e che in ogni caso prima lo avrebbe lasciato ubriacare. “Quando ci trattava bene, potevamo pensare a lui come a un Dio”, ha proseguito.
Sentimenti dei rapitori
Peraltro, anche se la Sindrome di Stoccolma viene tipicamente citata per spiegare i sentimenti ambivalenti dei prigionieri, in realtà a cambiare sono anche i sentimenti dei rapitori.
Olsson ha ad esempio spiegato che all’inizio dell’assedio avrebbe potuto “facilmente” uccidere gli ostaggi, ma che i rapporti erano cambiati nel corso dei giorni. Olsson ha anche dato la colpa di questa situazione agli ostaggi. “Hanno fatto tutto quello che ho detto loro di fare. Se non lo avessero fatto, potrei non essere qui ora. Perché nessuno di loro mi ha attaccato? Hanno reso difficile ucciderli, ci hanno fatto continuare a vivere insieme giorno dopo giorno, come capre, in quel sudiciume, e non c’era altro da fare che conoscersi” – ha dichiarato poi.
L’idea che i rapitori possano mostrare sentimenti positivi nei confronti dei prigionieri è un elemento chiave della Sindrome di Stoccolma, che i negoziatori di crisi sono generalmente incoraggiati a sviluppare, secondo un articolo del FBI Law Enforcement Bulletin del 2007. Può infatti migliorare le possibilità di sopravvivenza degli ostaggi, si dichiara nel pezzo.
Ad ogni modo, mentre la sindrome di Stoccolma è stata a lungo descritta nei corsi di negoziazione degli ostaggi della polizia, raramente è una condizione che si incontra nella realtà – dice Hugh McGowan, che ha trascorso 35 anni nel Dipartimento di Polizia di New York.
McGowan era ufficiale comandante e capo negoziatore della squadra di negoziazione degli ostaggi, che è stato istituito nell’aprile 1973 sulla scia di una serie di episodi di ostaggi avvenuti nel 1972 (come la rapina bancaria che ha ispirato il film Dog Day Afternoon), una rivolta che è arrivata a una violenta fine al carcere di Attica a New York, e il massacro alle Olimpiadi di Monaco.
Ad ogni modo, spesso la Sindrome di Stoccolma non è legata necessariamente a situazioni di rapimento. Si pensi al fatto che gli stessi principi alla base possono essere collegati a situazioni diverse. “Un esempio classico è la violenza domestica, quando qualcuno – tipicamente una donna – ha un senso di dipendenza dal proprio partner e rimane con lui nonostante le violenze”, afferma la psicologa Jennifer Wild, consulente psicologa clinica presso l’Università di Oxford. “Potrebbe finire con il provare empatia piuttosto che rabbia. L’abuso di minori è un altro – quando i genitori abusano emotivamente o fisicamente i loro figli, ma il bambino è protettivo nei loro confronti e non ne parla”.